Eccomi di nuovo qui a scrivere un altro dei miei articoli. È da un po’ che non scrivo, anzi, è da un po’ che non mi fermo a pensare e in questi giorni sono "costretta" a pensare. Penso alla mia vita personale, alle mie scelte e soprattutto al mio lavoro.
Quest’anno ho cambiato scuola: ambiente nuovo, colleghi nuovi e alunni nuovi.
Quest’anno riesco a respirare. Finalmente respiro. Mi sento rinata, mi sento serena.
Ogni anno è sempre una sfida nuova e più passano gli anni di lavoro, più mi rendo conto delle responsabilità che ho verso la scuola, verso la società.
Inizio a capire meglio determinate dinamiche sia organizzative che didattiche.
Ma c’è sempre una sfera che non sempre teniamo conto, ed è quella emotiva.
La scuola sembra ormai un campo di battaglia, un luogo dove ci si ascolta poco, si collabora poco. Un ambiente in cui gli insegnanti e i genitori vogliono avere sempre ragione. Un ambiente in cui, ormai, c’è una continua lotta di supremazia e finiamo tutti per dimenticarci la cosa più importante: far stare bene i ragazzi e stare bene noi stessi.
Noi insegnanti, genitori siamo qui per educare le future generazioni, stiamo dando in mano il mondo ai nostri ragazzi e se non iniziamo noi dalle piccole cose, a provare a rispettarci, provare ad ascoltarci, a comunicare, come possiamo pretendere che i nostri ragazzi possano migliorare quel pezzo di mondo intorno a noi?
Spesso entriamo in classe e ci dimentichiamo il vero motivo per cui siamo lì, perché siamo seduti dietro quella cattedra. Entriamo in classe e ci dimentichiamo tutto quello che ci eravamo posti come obiettivo per quella giornata: non alzare la voce, non dare punizioni, essere aperti all’ascolto. Eppure, che facciamo? Perdiamo la pazienza e adottiamo tutti i comportamenti che ci risultano più semplici e che conosciamo meglio: alzare la voce, dare punizioni, ascoltare poco. Ci dimentichiamo che magari quel bambino sta vivendo la scuola con un po’ di frustrazione o ansia, ci dimentichiamo della sua situazione famigliare, ci dimentichiamo che è un essere pensante. Tutto questo, poi, ci fa tornare a casa mangiati dai sensi di colpa, perché non abbiamo fatto abbastanza, non abbiamo fatto come volevamo, non abbiamo ascoltato i ragazzi, non abbiamo ascoltato il collega o la collega che magari aveva bisogno di un confronto o di sfogarsi, abbiamo alzato la voce e abbiamo dato quella punizione che non avremmo voluto dare. Soprattutto, ci dimentichiamo del perché abbiamo deciso di fare questo mestiere, perché abbiamo deciso di diventare insegnanti.
Però, il semplice fatto che partiamo già con degli obiettivi da raggiungere è un grande passo avanti.
Noi abbiamo un grandissimo potere, stiamo educando le future generazioni e dobbiamo essere fieri di questo lavoro, anche se ci dicono che ci facciamo tre mesi a casa e facciamo circa 4-6 ore di lavoro al giorno. Chi non insegna non può capire quante energie mentali spendiamo e, fidatevi, che le energie mentali sono più distruttive di quando fai 2 ore consecutive di pole dance.
Dobbiamo crederci nel nostro lavoro ed essere gentili e pazienti con noi stessi. Non sentiamoci in colpa se un giorno alziamo un po’ di più la voce, se daremo quella punizione in più, se non ascolteremo abbastanza i nostri ragazzi. Se non l’abbiamo fatto quel giorno, lo faremo il giorno dopo. L'importante è partire ogni giorno con degli obiettivi, provare a sperimentare comportamenti un po' più sani che potrebbero risultarci difficili, ma che potrebbero aiutarci per capire meglio i nostri alunni e cambiare la loro vita con una sola ora di lezione.
“Un bravo insegnante non è forse quello che sa fare esistere nuovi mondi? Non è quello che crede che un’ora di lezione possa cambiare la vita?” Massimo Recalcati
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